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"Di solito, quando si tratta di classici - come è ormai pacifico considerare anche quest'opera singolare di Gibran - le traduzioni sono numerose e "Il Profeta" non fa eccezione. Vorrei dare perciò una mia risposta non rituale alla rituale, anche se legittima domanda: "C'era bisogno di una nuova traduzione?" La mia risposta è: sì. E aggiungo, paradossalmente: quando si parla di classici, "c'è sempre" bisogno di una nuova traduzione. Anzi, più traduzioni ci sono, meglio è. Infatti, tradurre non significa mettere una parola al posto di un'altra. Tradurre vuol dire capire. E capire, anche etimologicamente vuol dire "prendere in sé". E allora ciò che si prende in sé non si può più restituire uguale: perché esso, per definizione, è passato attraverso tutta la storia della nostra vita, attraverso la nostra educazione, la nostra sensibilità, la nostra emozione. Quando si tratta di poesia, poi, si tratta di un fenomeno di "comunicazione" tra l'autore e il traduttore, che va ben oltre la parola (la parola muore, non appena detta, ricordava Emily Dickinson, poeta grande) e che si restituisce, ogni volta, carica di nuove linfe, ad una nuova generazione di lettori."